Vai a lavorare!

Vai a lavorare! Dovrebbe essere un incoraggiamento, questo. Invece lo usano come umiliazione. Ma cosa intendono loro, per lavorare?

“Vai a lavorare”, è una frase che spesso e volentieri in questi due anni mi sono sentita rivolgere da persone che evidentemente non avevano altra argomentazione per esprimere il proprio disaccordo nei miei confronti. Poveri loro!

Vai a lavorare! Ma cosa intendono?

Forse per loro, “lavorare” significa solo spaccarsi la schiena in cantiere o stare sui campi, o in fabbrica? Neanche mi pongo il problema sinceramente, perché io un lavoro ce l’ho.

D’accordo, il mio lavoro è al computer; sto a una scrivania (e sì, se non ti muovi fa male la schiena anche quello); sono due anni che sto in telelavoro – o smart working se fa più tendenza chiamarlo così-, ma da quando c’è l’emergenza sanitaria ho colto tutte le opportunità che il digitale mi ha offerto perché, paradossalmente, dove per altri si sono innalzate barriere causate dalla distanza fisica, per me si sono abbassate perché tanti eventi su attività di mio interesse prima svolti in presenza, essendo in digitale mi hanno permesso di esserne parte attiva e di mantenere il lavoro in azienda. Per cui se tu mi dici di andare a lavorare, ecco, più che umiliarmi, mi stai incoraggiando a svolgere le attività che ho sempre fatto. Quindi capisci da solo che non vale la pena discutere!

Chi sono loro?

Ho sempre parlato di “loro”, senza anteporre un soggetto definito. Ecco, loro, sono gli utenti social che dicono a chiunque “vai a lavorare”, ma passano tutto il proprio tempo a invitare gli altri a trovarsi un lavoro! Un po’ come quando io – che non vedo un tubo -, dico a un altro: “Guarda dove vai!” Il punto è che in tal caso il vedente in questione mi sta creando un problema o un ostacolo, loro invece… Danno solo fastidio come le mosche. Una volta che li defenestri hai finito!

OK, basta. Ho già perso troppo tempo così. E prima che me lo chieda qualcuno… Vado a lavorare.