Quando essere sensibili finisce per creare distanza

La disabilità genera paura, distanze e barriere. Tante volte si parla di combattere le barriere architettoniche, ma quelle comunicative non vengono percepite e, addirittura, in molti casi vengono incentivate. Eppure è la loro eradicazione la base da cui partire per una società più inclusiva.

Quando ci si relaziona con qualcuno, l’ultima cosa che si vorrebbe è creare distanza verso il proprio interlocutore. Eppure succede più spesso di quanto si possa credere.
Soprattutto in Italia, in cui è ancora parecchio diffusa una cultura indirizzata all’assistenzialismo piuttosto che l’inclusività, non si considera la persona con disabilità come qualcuno in grado di intendere e volere, di comunicare correttamente e difendersi da eventuali offese. E’ sempre un eterno bambino, vulnerabile, indifeso, che va protetto anche dal nome della propria condizione. Allora ecco che si arriva ad inventarsi neologismi tipo “diversamente abile” con la scusa di non essere offensivi, ma alla fine, si offende ancora di più, perché si arriva a negare una condizione che esiste, rivelando di averne paura e non sapere come fare, preferendo quindi fuggire.

Non solo neologismi: c’è di peggio

Se pensando ai neologismi tipo “diversamente abile”, “diversabile”, “superabile”, si presume di aver già toccato il fondo, mi spiace smentire. C’è di molto peggio, specie se si va a scavare all’interno della comunicazione nei social network.
In questo blog, mi sono già occupata dei paladini della disabilità che vogliono difendere i poveri disabbbili indifesi da articoli satirici cattivi cattivi oppure dai temibili banner sui saldi mai visti per i quali si scomodava pure il sindaco, arrivano pure quelli che vogliono difenderci dalla lingua italiana.
Grandi scandali perché Morandi ha detto a Bocelli “guarda ti faccio vedere” indicandogli il posto dove sedersi, oppure per la d’urso che ha detto “saluto i ciechi che stanno guardando”, indicando la sua trasmissione tv.
Anche a me capita spesso di qualcuno che ride quando uso i verbi “guardare” o “vedere”, o semplicemente me lo fa notare; ma io parlo in italiano, come tutti. Essere cieca dalla nascita non mi rende esente dal parlare in italiano, anche se non disdegno parlare in dialetto; per cui, per me, “guardare” o “vedere” significa dare attenzione a qualcosa, esattamente come per gli altri. Idem per la tv, anzi, tra guardare e seguire c’è differenza. Se io seguo, do attenzione profonda a qualcosa. O, nel caso di una serie tv, seguo il corso delle puntate. Se io guardo, posso anche stare con la tv accesa e porre attenzione anche altrove.
Addirittura una volta, una mamma si scandalizzò perché al figlio, paraplegico, che mi aveva fatto un lavoro davvero malissimo, ho detto “Gianni, certo che hai lavorato veramente coi piedi”.
Frase che avrei utilizzato comunque, là non avevo il paraplegico davanti. Avevo Gianni che ha fatto un lavoro indecente. Certo, avrei potuto dirgli che ha lavorato col sedere, la mamma in questione preferiva questo?
Ma, se la persona in questione non si offende per l’espressione che uso. Perché deve mettersi qualcun altro in mezzo?

Quando cambiare parola cambia significato

Se possibile, questa gente che cambia le parole a seconda della disabilità per mostrarsi empatica, è ancora più inconsapevole dei disastri che fa, perché oltre a farli nei social, li commette anche nella vita reale.
“Ci vediamo domani! Arrivederci!” Normalissimo saluto tra persone, più o meno colloquiale. Non è una coltellata, è un saluto! Eppure certi si fanno scrupoli e a un cieco sostituiscono il vediamo / vederci, con sentiamo / sentirci.
Col risultato che si creano degli equivoci assurdi. Ci vediamo, vuol dire che noi ci incontreremo. Ci sentiamo, significa che non avendo la possibilità di incontrarci, ci sentiamo per mail, al telefono, e così via. Non importa se ci si guarda negli occhi, ma il vedersi, implica un incontro fisico, indipendente dalla disabilità.

Conclusioni

Quando una persona cambia le parole per accomodarle alla disabilità, il messaggio che arriva all’interlocutore con disabilità è: mi fai paura. Non so come trattarti. Qualsiasi cosa faccio, ti offendo; tu sei diverso da me, per cui io devo adeguare il linguaggio a te. E questo crea ancora più distanza di quella che già ci sarebbe. Essere se stessi, invece, è la soluzione migliore; le paure, se ci sono, si combattono essendo se stessi e non trasmettendole agli interlocutori con questi sistemi maldestri, finalizzati a cercare di nasconderle.
Sarà la singola persona con disabilità, poi, a chiedere eventualmente di “cambiare registro” se serve. Smettiamola di trattare chi ha una disabilità come se fosse, sempre, una persona non in grado di intendere, volere e difendersi.