AIDS: chiedi le prove per sconfiggere lo stigma

Questo è un articolo che scrissi per la pagina Chiedi le prove, in merito a un evento che doveva esser tenuto a Bruxelles nel 2017. Ho deciso di tenerlo, e non buttarlo via, ovviamente adattandolo al 2018.

Sono Elena Brescacin, e sono una persona non vedente dalla nascita.
A causa della mia disabilità sensoriale, sono sempre stata costretta dalle circostanze a fidarmi del prossimo, anche su situazioni in cui altre persone riscontrano la realtà con i propri occhi: se qualcuno mi dice che la mia maglietta è bianca, non posso avere alcuna prova che me lo confermi o smentisca, perché per me i colori, semplicemente, non esistono: mi sono dovuta creare dei sistemi, con l’aiuto di persone vedenti, i quali mi permettessero di gestire l’abbigliamento e le scarpe, posizionando strategicamente indumenti e calzature in modo da poter riconoscere quali siano idonei, a seconda della posizione in cui sono stati riposti; i soldi, quelli, sono distinguibili dalla forma e la dimensione e, se proprio necessita, c’è un dispositivo che si chiama cash test, che si ripiega a libro sulla banconota e mostra il suo valore, in alfabeto braille, per cui anche in quel caso, le prove, ce le ho in mano; ma già se qualcuno pubblica una foto sul mio diario di facebook, senza descrivermela, o mi ci tagga, non riuscirò mai ad avere un riscontro se qualcuno mi ha pubblicato un gattino o un pornazzo, per cui evito di farmi taggare nelle foto, o farmele pubblicare sul diario. Certo, in un network di quasi 500 contatti, se una cinquantina mi dicono che è un gattino e uno mi dice che è un pornazzo, è ovvio che non può essere che in cinquanta si siano messi d’accordo per farmi credere che sia un gattino; in una situazione come la mia, vivere sempre con lo spettro dell’inganno, non ha senso: non puoi vivere pensando che chi ti accompagna in macchina, o l’autista di un mezzo pubblico, sia drogato, ubriaco, o un maniaco con cattive intenzioni, non puoi pensare che di fronte ad esami clinici i medici ti dicano una cosa per un’altra (anche perché adesso i computer con gli scanner permettono di leggere pure i referti, quando non sono già disponibili on line), non puoi pensare che ogni persona che ti si avvicini lo faccia per secondo fine, questo significherebbe davvero non vivere, e se già esistono tanti pregiudizi nei confronti della disabilità, non è necessario chiudersi nelle paranoie e crearsi problemi ulteriori; proprio quando la circostanza ti costringe a fidarti degli altri anche dove non vorresti, capisci quanto, chiedere le prove quando la cosa non ti torna, sia altrettanto una questione di sopravvivenza. Ed è proprio grazie all’aver sempre chiesto, e fornito, le prove, che ho ucciso un pregiudizio duro a morire: quello su HIV e AIDS.
Erano gli anni 80, e io facevo le scuole elementari quando sono arrivate le prime notizie sull’AIDS, “se lo conosci lo eviti”, il terrorismo era palpabile: se ti rotoli sull’erba in giardino a scuola rischi di prendere l’AIDS e morire! Ero terrorizzata, sapendo che i miei compagni maschi invece continuavano a rotolarsi imperterriti. Uno di loro si ammala e sta per lungo tempo in ospedale, tornando a scuola malconcio un paio di mesi dopo. AIDS? Ma Beppe non è morto. Eppure lui è uno che si rotola per terra spesso e volentieri più degli altri; ognuno di noi che si ammalava di qualcosa, tornava sempre a scuola vivo, e allora ricomincio a rotolarmi come niente fosse, di AIDS a casa mia non se ne parlava più, e intanto passa il tempo; compio 10 anni e su quella malattia misteriosa di cui si facevano pubblicità in tv spaventose, troppe cose non mi tornavano, sentivo d’istinto che non c’era ragione di aver paura, eppure tutti non ne parlavano ma allo stesso tempo erano terrorizzati. Perché?
Un giorno il maestro spiega il sangue, le trasfusioni, e si accenna all’AIDS, malattia che si contrae “con la droga, facendo l’amore e con le trasfusioni di sangue” e mi avvicino alla maestra di sostegno, allora incinta, e le ho fatto la domanda: “ma se facendo l’amore si prende l’AIDS, ce l’hai anche tu? I bambini si fanno quando i grandi si vogliono bene e fanno l’amore, giusto? Ma se così prendi l’AIDS, finisce il mondo perché tutti possono morire!” E lei dopo un momento di silenzio mi ha risposto che quella malattia la prende chi “vuole bene alle persone sbagliate”, ma più di dirmi “quelli che si drogano” non ha saputo fare quando le ho chiesto come i grandi facevano a distinguere le persone giuste da quelle sbagliate. Per la serie: ma bambina, quando la pianterai di chiedere le prove? Fidati una buona volta! Quel “persone sbagliate”, non mi andava proprio giù. Se qualcuno considerava “sbagliato” un altro perché aveva una malattia mortale, qualcun altro aveva il pieno diritto di considerare sbagliata anche me che non ci vedo; non riuscivo ad accettare, già allora, certi comportamenti poco chiari degli adulti, verso altre persone.
Alle medie, succedono due cose: mi appassiono di Freddie Mercury, e mi prendo una cotta per un ragazzino. Vengo a sapere che il cantante dei Queen, che mi piaceva tanto, è morto per AIDS, eccola, la malattia che fa paura; ha ucciso una brava persona, l’AIDS è qualcosa che esiste! Mia madre è stata in gamba a spiegarmi cosa fosse l’omosessualità, come era successo che Freddie fosse morto. Ma intanto, continuavo a chiedermi come fare a capire se il ragazzino che mi piaceva era “giusto” o “sbagliato”; un mio amichetto più grande di un anno, tra l’altro, quando gli raccontai che mi piaceva Luca, mi disse “mi raccomando i preservativi, sono i palloncini che noi maschi usiamo sul pisellino per non prenderci l’AIDS”. Finalmente le cose iniziavano a tornarmi, mancava però ancora un pezzo: come fare a sapere se uno ha l’AIDS o no! Fino a che la prof di scienze in terza media non parlò dei primi test del sangue, e allora là, capii tutto: fai il test, usa i palloncini con le persone a cui vuoi bene, e l’AIDS ti starà lontano un chilometro, senza bisogno di aver paura.
Da quel momento, adolescente quale ero, feci una specie di “giuramento” davanti al poster di Freddie mentre lo stereo suonava “who wants to live forever”: avrei fatto qualsiasi cosa, con i miei mezzi e i miei limiti, per impedire che qualcun altro avrebbe avuto paura ingiustificata dell’AIDS.
Alle superiori ho tenuto per un po’ la rubrica HIV/AIDS del giornalino scolastico, in cui mettevo le informazioni che in quel tempo raccoglievo dal giornale “Epoca”, poi chiuso nel 96, e da televideo rai, uniche risorse informatiche che mi permettevano di comunicare elettronicamente con l’esterno; al tempo, c’erano già gli scanner con l’OCR, però leggere un quotidiano risultava molto complicato. Nel 1998 è arrivato Internet, con tutto ciò che ne conseguiva, compresa la possibilità di sviluppare al meglio la tesina della maturità, scelsi l’argomento “la donna e i costumi sessuali nel mondo”, in cui parlai di infibulazione, educazione sessuale, e anche AIDS, uscendo con un voto di 92/100.
E ora, siamo nel 2019 e sono orgogliosa di poter aiutare, dove possibile, le persone a superare i pregiudizi su HIV, troppe volte la gente si fa ancora suggestionare dallo stigma e dalle leggende metropolitane degli anni 80, eppure le contraddizioni di questi terribili luoghi comuni, sono davanti al nostro naso; basta solo avere il coraggio, la volontà, di mettersi in discussione e chiedere le prove. La paura, non permetterà mai di vivere serenamente; la malattia è come un fantasma, più hai paura, più ti insegue.